– Sofferenza e serenità
Di seguito si riportano alcune note tratte dal quinto e ultimo libro del M° Giuseppe Tamanti, di cui si riporta la copertina. Vedi anche ulteriori notizie nella Pagina Home e nella Pagina: I maestri, gli Insegnanti e i Docenti.
«Perché si prova dolore?». E’ questa la domanda che ci introduce al rapporto intercorrente tra sofferenza e serenità e credo sia la migliore per affrontare l’argomento della presente pagina.
Il tentativo di dare una risposta a questo grande quesito è riposto nelle pieghe di un qualsiasi sistema filosofico. Ma prima ancora di addentrarci nella filosofia, proviamo a chiederci quali siano le dinamiche interiori che alimentano lo stato esistenziale di sofferenza e, più in generale, quale sia l’impostazione di pensiero di colui che sperimenta il dolore.
Avete mai notato che quando si sta bene non si avverte quasi lo stato in cui ci si trova, mentre quando non si sta bene si percepisce subito la condizione di sofferenza? E ci si mette in allarme e si corre alla ricerca di una soluzione?
E’ un semplice dato dell’esperienza, con profondi risvolti biologici e psicologici. E la spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che lo stato di benessere si dà per scontato, lo si sente naturale al punto che l’eternità e l’onnipotenza ci sembrano anch’esse condizioni talmente naturali che, in questo stato di grazia, il pensiero della morte non ci sfiora neppure. Ma quando sopravviene il dolore cambia tutto. Si sente il bisogno vitale di attivare con immediatezza tutti i rimedi utili al suo più rapido superamento e si rimpiange la serenità perduta.
Cerchiamo di renderci meglio conto della portata di una tale affermazione. Ciò che abbiamo appena detto sta a significare che lo star male, il male, in generale, è un’entità relativa, senza una propria forza autonoma, entrato di soppiatto come uno sgradevole intruso nella nostra vita. Mentre il bene è un’entità assoluta, dotata di una propria forza autonoma talmente coerente con le costruttive ed evolutrici linee guida del processo del divenire che della sua presenza rischiamo di non accorgercene.
Ed ecco che, a pensarci bene, si scopre che il male alberga solo nella mente umana e che non è rintracciabile in nessun’altra parte dell’universo manifesto. Diceva il filosofo stoico Epitteto, nel suo Manuale (27): «Come non si installa un bersaglio per gli errori di tiro, così nel cosmo non esiste la natura del male».
Il male è, infatti, indissolubilmente legato all’intenzionalità e, quindi, ad una condizione prettamente umana. Al di fuori di questa condizione si parla di non perfezione, di errore, di accidente o di fatalità.
In sintesi, la sofferenza è generata dall’incapacità di distinguere la natura particolare ed effimera del male da quella generale e assoluta del bene. E da ciò deriva la confusione, il dubbio e la paura. La vita perde di “senso” e si sbaglia direzione, perché si è persa di vista l’inscindibile unità che esiste fra il soggetto cosciente e la natura di cui fa parte.
Chi riesce a intuire questa unità, a cogliere questo sommo bene come ricerca comune, vive il proprio divenire, con i suoi infiniti coinvolgimenti e le sue naturali non perfezioni, conscio della relatività della sofferenza e certo dell’assolutezza della beatitudine. E si risveglia pieno di amore per la vita e di fiducia nel suo divenire.
– La terapia filosofica
Quando si riflette su argomenti come questi, utilizzando sensitività e intuitività insieme, si può ben dire di aver iniziato a percorrere la strada della vera e profonda conoscenza dell’intima natura di se stessi. E l’amore per questo tipo di conoscenza, che in altra parte del testo è stata definita filosofia realizzativa dell’essere, può ben essere riconosciuta come la più alta ed efficace forma di terapia. In tutti i sensi.
Da un punto di vista sia psicologico che filosofico, l’angoscia che si sperimenta non è altro che il corrispettivo psichico dei nostri sensi di colpa nei confronti di un sentito ma non riconosciuto concetto di appartenenza alla totalità. E’ come se avessimo inconsciamente scatenato una reazione di allarme in tutto il nostro psichismo per aver tradito un nostro originale e vitale impegno, per aver trascurato la prospettiva unitaria, costruttiva ed evolutiva di ogni aspetto del processo del divenire.
Questa è la principale causa dell’ansia e dell’angoscia, amari frutti dell’incerto incedere esistenziale. Ma la situazione potrebbe peggiorare ancora se mai intervenisse, a seguito a un perdurare nell’errore, quell’alterazione umorale d’immotivata tristezza, di smarrimento del senso-direzione della vita che accompagna e caratterizza la depressione e la melanconia.
Le conseguenze di un’esistenza superficiale e, in genere, di un permanere nello stato di non conoscenza sono dunque dolorose, anche molto dolorose. Ma rassereniamoci pensando che l’amore per la conoscenza, l’anelito filosofico è innato in noi e ha la funzione di lenire proprio quella sofferenza.
Il contenuto del precedente capoverso era ciò che intendevo trasmettere a tutti i miei allievi di Yoga, quando, nel lontano 1985, spedii loro un mio lungo scritto intitolato “La Terapia filosofica”. E, affinché oggi non si possa pensare che mi sia indebitamente appropriato di una definizione che oggi è cara al campo della “consulenza filosofica”, intendo chiarire che quello stesso titolo sarebbe stato poi ulteriormente sviluppato nel Capitolo II del “Trattato di Yoga classico – Teoria e Pratica”, pubblicato nel maggio del 1998. Il mio interesse per la questione è un amore antico e risale, pertanto, a molto prima dell’uscita del rinomato libro “Platone è meglio del Prozac”, del 1999, che contribuì fortemente a divulgare il tema. Va comunque precisato che il Sāṃkhya, il Buddhismo antico e lo Yoga, così come tutte le filosofie realizzative indiane, svolgono da millenni quel compito.