Samkhya e Manifestazione


 

Il darshana del Samkhya

 

Copertina del quinto e ultimo libro, edito nel 2022 del M° Giuseppe Tamanti.

 

Il sistema di pensiero (darshana) Yoga, per essere compiutamente appreso, deve essere preceduto o almeno affiancato dall’esposizione e dalla comprensione del sistema del Sāṃkhya, Scuola filosofica indiana tra le più antiche e autorevoli.

 

Sia il Sāṃkhya che lo Yoga sono sempre stati considerati strettamente apparentati e, addirittura, la Bhagavad Gītā li considera come un’unica disciplina, il Sāṃkhya-Yoga, dove al primo vengono attribuite le funzioni cosmologica, conoscitiva e psicologica e al secondo viene affidata la realizzazione pratica di quanto prospettato dal primo.

 

 

Tale rigorosa attribuzione di compiti è da sempre largamente riconosciuta in terra indiana, anche se molti secoli dopo, con l’arrivo in occidente dello Yoga, quest’ultimo sarà privilegiato, a motivo del suo pragmatismo e della sua adattabilità ai rapidi cambiamenti sociali e culturali di questa parte del mondo, e riuscirà ad avere molta maggiore fortuna del Sāṃkhya.

 

Ritengo che quasi tutti i praticanti di Yoga, che in Occidente si contano a diverse decine di milioni, abbiano sentito parlare del Sāṃkhya e lo considerino perfino importante, ma credo che pochi siano coloro che si sono applicati a esso con la dovuta concentrazione e siano riusciti a immedesimarsi nei temi metafisici, conoscitivi e psicologici che questa antica e rigorosa scienza propone.

 

A chi sta a cuore lo Yoga, il consiglio che mi permetto di dare è di affrontare, senza alcuna fretta, i temi proposti dal Samkhya, perché da essi possono davvero nascere nuove e illuminanti visioni intorno alla natura e al suo dispiegarsi e al desiderio di miglioramento che permea qualsiasi aspetto del suo divenire. Consente, infine, di penetrare e di sempre meglio conoscere l’illimitato mondo dello psichismo e di poterlo valutare e guidare alla luce dei grandi valori della vita al fine di migliorare la qualità dell’esistenza. Così come fanno le stelle fisse che guidano il capitano della nave che si barcamena nell’immenso oceano degli avvenimenti.

 

Al termine Sāṃkhya veniva anticamente attribuito il valore di riflessione filosofica, ma poi assunse anche quello di numero, in considerazione dell’enumerazione analitica dei venticinque princìpi delineati al suo interno.

 

Il darśana di Kapila (il mitico fondatore del Samkhya risalente all’VII sec a.C.) è sempre stato considerato come il punto di vista filosofico più significativo di tutto il pensiero indiano. Anche i più attenti studiosi occidentali sono concordi nell’assegnare al Samkhya il merito di aver messo in evidenza, per primo nella storia del pensiero, la capacità delle mente umana di essere libera e indipendente rispetto a qualsiasi condizionamento e di aver esortato l’essere umano a riporre piena e risolutiva fiducia sia in lei sia nella saggia amministrazione dei suoi grandi poteri.

Originale e fondamentale concezione, questa, che accomuna tanta parte della filosofia indiana allo spirito dei posteriori filosofi stoici greci, per i quali ultimi il pensiero costituisce la migliore medicina spirituale sia per addolcire e curare la sofferenza esistenziale sia per permettere il ritrovamento della fiducia e della serenità anche nelle immancabili sventure.

 

Non ho alcuna pretesa di spiegare tutto il Samkhya nelle poche righe della pagina di un sito, ma ritengo che alcuni concetti sia importante esporli.

 

 

 


 

La sofferenza esistenziale

 

La sofferenza e la ricerca del suo superamento sono i grandi temi della filosofia. Vediamo di approfondirne il significato, essendo questo uno degli argomenti fra i più cari al pensiero indiano.

 

 

Gaudapada, il commentatore della Samkhya-Karika, precisa che «La sofferenza mentale» la più insidiosa «consiste nella separazione da ciò che ci è caro e nell’unione con ciò che non ci è caro».

 

Se stiamo attenti, però, possiamo renderci conto che quello stato di sofferenza ci suggerisce qualcosa. Esso ci avverte, severamente o amorevolmente, che abbiamo perso il lume, che ci troviamo in mare aperto senza aver fatto una scelta consapevole in tal senso, che siamo lontani dal porto sicuro che ci aspettavamo o che conoscevamo, senza punti di riferimento, abbandonati a noi stessi e sgomenti.

 

Qualcuno potrà forse pensare che è questa la libertà. Ma non si dà libertà di navigare senza la certezza consolatoria delle coste vicine o senza la conoscenza delle stelle fisse o senza la luce del faro. Saremmo in balìa di un cieco destino, del più astratto fatalismo, quando invece le più importanti prerogative dell’essere umano sono, sì, il libero arbitrio, ma anche la capacità di prevenzione e di pre-visione.

 

Non che non si possa vivere senza punti di riferimento. Si può vivere, eccome. Sono tanti, infatti, coloro che vivono in queste condizioni, ma se osservate il livello di elevazione spirituale e di serenità della loro esistenza vi troverete di fronte a molte amarezze e a molti dolori.

 

Che fare, allora? Una volta fatta chiarezza e presa consapevolezza del significato di sofferenza e di libertà, riconosciuta l’importanza di quelle stelle fisse, volgiamoci verso quelle, verso i valori che esse esprimono, e saranno loro a farci trovare la luce del nostro faro, il porto sicuro tanto desiderato.

 

Muoviamoci con entusiasmo in quella direzione, che è poi la direzione della nostra personale ricerca delle cause prime della vita. Ricerca di conoscenza che è, anche fosse l’unica aspirazione che ci rimane, fonte di grande felicità. Perché, a proposito di libertà, una sua bella definizione è che “libertà è conoscenza, fiducia e ordine“.

 

 


 

L’osservazione della realtà

 

 

Tutte le indagini che riguardano la natura e l’uomo, siano esse filosofiche, psicologiche, sociologiche o scientifiche, dovrebbero partire dalla considerazione della realtà, prendendo spunto dai fatti e dalle esperienze, dalle sensazioni e dalle emozioni, dalle intuizioni e dai pensieri comunemente vissuti. Indagini che subito mettono in evidenza il bisogno di cercare le cause che hanno prodotto quegli effetti. E allora verrà da chiedersi, con la sana curiosità del bambino o del diligente allievo: «Cos’è questo?», «Perché questo?».

 

E’ così che nasce la riflessione filosofica ed è così che si cresce. Senza nascondersi di fronte alla realtà. Che poi, realtà, ha una etimologia davvero interessante. In sanscrito “l’esistente” si dice “sat” e “verità” si dice “satya”. Ne viene che la realtà è la verità. E che altro potrebbe essere verità se non la realtà? Nel nostro parlare comune si dice che “una cosa reale è una cosa vera” e che “una storia realmente vissuta è un vero“.

 

Vivere nella verità è vivere nella realtà, vivere all’insegna dell’armonia, della quale ogni aspetto della natura dimostra l’esistenza e l’universale importanza.

 

Mi raccomando, non si confondano le disgrazie e le negatività che in una natura non perfetta inevitabilmente accadono con le grandi e innegabili meraviglie che la natura continuamente ci mostra. Ma su questo tema ci siamo già dilungati nella pagina dedicata alla Terapia filosofica, quando abbiamo parlato del bene e del male.

 


 

L’evoluzione

 

L’enunciato di Lavoisier, padre della chimica moderna: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma» era già conosciuto 2500 anni fa e sintetizzava il sistema di pensiero del Sāṃkhya, che, però,  a tale sintesi aggiungeva: «… in modo evolutivo».

 

Il concetto, quello di evoluzione, che ha avuto un effetto tanto dirompente da scardinare alla base la religione del soprannaturale e da rendere inaccettabile, per la logica, l’idea della creazione prodotta da un qualsiasi ente superiore.

 

Il paradigma, che rispetta i dati di realtà ed è pertanto un frutto dell’esperienza, è il seguente:

 

 

  • l’evoluzione ha in sé il suo proprio fine, che è quello di migliorare continuamente lo stato di ogni manifestazione ed è alimentato dalla luminosa intelligenza presente da sempre in ogni luogo e in tutte le cose;
  • il divenire evolutivo è mosso da un’energia che ha un verso, una direzione vitale;
  • la struttura operativa, necessaria per agire nella realtà e messa al servizio dell’intelligenza e dell’energia viene offerta dalla densa sostanza materiale.

 

Paradigma difficile? Non direi. Voglio solo far notare che queste tre “qualità costitutive di tutta la natura”, come dice il Samkhya, corrispondono ai tre simboli che entrano in gioco nella Relatività ristretta di Einstein: “c”, “E” ed “m”, luce, energia e massa.

 

Ma osserviamo come si materializza il pane che mangiamo tutti i giorni. Non è forse il frutto dell’aggregazio­ne di elementi materiali semplici come l’acqua e la farina sotto la supervisione dell’intelligenza e dell’energia?

 

Solo che, nel caso del pane, vi è una chiara intenzionalità, quella del fornaio, che corrisponde alla costruttività che contraddistingue l’intelligenza umana. Ma che si può estendere anche a una costruttività spontanea, perché sia l’intelligenza che il fine evolutivo appartengono a ogni cosa.

 

E, infatti, l’impasto ottenuto non ha forse una sua specifica vita rispetto alla farina e all’ac­qua? Lasciatelo a riposo per qualche giorno e vedrete come diventa lievito con le sue straordinarie proprietà.

 

«Il pensiero prende forma», «La volontà è l’intima essenza di tutte le cose e di tutti i fenomeni» ci dicono le antiche Upanishad, e se sostituite i vocaboli pensiero e volontà con intelligenza vi ritroverete nel paradigma del Samkhya.

 

“Ciò che semini, raccogli.”, in una sintesi del come muoversi nella vita e, insieme, del vivere serenamente la vita di tutti i giorni, cioè i singoli frangenti dell’esistenza così come quelli che apparentemente sembrano essere i meno significativi perché la vita è manifestazione.